MALATO TERMINALE PERCHE’ NON HA IL SENSO DELLO STATO

Le dichiarazioni fatte dal Segretario del PD, Pierluigi Bersani, come commento ai risultati elettorali, sono la cartina di tornasole dell’incredibile crisi di identità di una sinistra ormai staccata dal Paese reale e che, vivendo in un paese virtuale, sta tirando avanti come una specie di malato terminale. Si, affermare, infatti, che ‘dal voto non giungono elementi di sfiducia’ verso il proprio partito e, addirittura, dichiarare, senza scoppiare a ridere, che si può parlare ‘di inversione di tendenza’ è la dimostrazione lampante del totale isolamento dalla realtà.

La battuta più feroce, nei confronti di Bersani, l’ha espressa il Grillo genovese che lo ha liquidato con un “delira, rimuovetelo”. Ma non è l’unico. Altri, 49 senatori, hanno sottoscritto una lettera indirizzata al Segretario; altri ancora lanciano proclami; ed altri, esterni (?) al PD, come Di Pietro, affondano la lama nella ferita è chiedono un passo indietro al vecchio gruppo dirigente e la promozione di una nuova generazione di quadri. Ma nel tempo necessario perché essa nasca, cresca e si affermi, lui ‘soldato e non generale’, come si è autodefinito, può candidarsi a guidare la sinistra.

Pochi, pochissimi, però, hanno fatto analisi serie e proposto percorsi concreti, e fra essi, quel Niki Vendola che ha stracciato, mortificato e sconfitto il leader maximo della sinistra post e neo comunista a cui è rimasta ormai solo l’etichetta di leader e quella di maximo, dato che nelle analisi dimostra un totale obnubilamento che lo fa continuare, infatti, ad arrovellarsi il cervello su tattiche e giochi di corridoio contro l’eterno rivale Ualter Veltroni. Vi è di più. Persevera nell’errore dell’isolamento rifiutando il dialogo sulle riforme con la maggioranza e bollando come ‘scellerate trasversalità’ ipotesi di accordi col nemico giurato Silvio Berlusconi.

Quel che dimostra che non c’è speranza, per i sinistri, di un loro rientro nell’agone politico vero non è solo lo snobbare quanti dichiarano che si rischia di restare al palo per molti anni, quanto l’atteggiamento del Bersani che dinanzi agli attacchi non trova di meglio che dichiarare che vuole parlare con tutti, dai 49 senatori protagonisti del ‘pronunciamiento’ allo stesso Grillo. Si continua a pensare, quindi, che tutto possa essere ricondotto a incontri, trattative, confronti ed accordi, dimenticando che a muovere idee e persone sono solo le politiche, le scelte vere che per essere tali non debbono, per forza, essere diverse da quelle della maggioranza.

Le scelte vanno commisurate agli interessi dei cittadini, alla costruzione di un Paese normale, alla fuoruscita dalla crisi, al ripristino della divisione dei poteri, all’isolamento ed alla messa fuori gioco dei settori più scatenati della magistratura che deve ritornare ad essere semplice gestione della giustizia senza ‘missioni di redenzione della società’, alle scelte economiche che guardino all’interesse dell’Italia, alla riforma del fisco ed al suo federalismo, alle decisioni sulle grandi opere, in una parola ad un serie di scelte che dimostrino il ritorno, di questa importante forza politica, tra quelle che hanno il senso dello Stato.

La gente ha espresso il suo disappunto, con l’astensione o con il cambio di schieramento, anche perché non condivide atteggiamenti che considerano positive alcune scelte se a farle è il centrosinistra, e negative se sulle stesse si impegna il centrodestra. Riforma dello Stato, grandi opere, Ponte sullo Stretto, energia, interventi militari all’estero, sono tutti esempi di scelte tattiche contingenti senza alcun senso dell’interesse vero della Nazione.

Senza il ritorno ad una politica che abbia respiro nazionale, sarà impossibile rientrare nel gioco dell’alternanza, e tutto si ridurrà con o senza Bersani ad inseguire le estremizzazioni che a turno faranno Di Pietro, Grillo, popolo viola, magistratura militante e, dulcis in fundo, quello che produrrà l’eterna lotta tra D’Alema e Veltroni. L’Italia con le scelte sulle regionali ha già detto che non gli interessano.
Giovanni ALVARO

Reggio Calabria 2.4.2010

BIPOLARISMO? E’ MEGLIO E PIU’ FACILE VINCERE DA SOLI

Quanto si è verificato a Roma e in Lombardia, con le esclusioni, almeno finora, delle liste del PdL e del listino di Formigoni, è qualcosa di veramente sconcertante come sconcertanti sono le dichiarazioni seguite che azzerano, in un sol colpo, tutte le filosofie sul bipolarismo. E’ chiaro infatti che senza uno dei contendenti la partita è inesistente e il bipolarismo è praticamente scomparso.

La cosa certamente esalta chi non assaporava la vittoria da molto tempo, ed era destinato a non assaporarla neanche adesso, e crede che ottenerla, con qualunque mezzo, sia un dono del cielo che non si può rifiutare. Tra essi ci sono i radicali che sono stati i protagonisti delle due vicende, a Roma vietando con la violenza l’accesso agli uffici circoscrizionali, e in Lombardia con un ricorso ben orientato di Marco Cappato. Ma ci sono anche i signori del PD con in testa Bersani che ripete in modo monocorde ed ossessivo che le regole sono regole e vanno rispettate.

Che in Lombardia ci sia solo un 40% che li sostiene è irrilevante, che nel Lazio il malgoverno e le vicende Marrazzo non vengano sottoposte al giudizio degli elettori e che questo giudizio non possa influire sulla ricerca di una nuova classe dirigente, è pure là di secondaria importanza. Ma chi se ne importa che è solo una minoranza a determinare le scelte politiche nelle contrade lombarde? E chi se ne frega, dicono sinistri e radicali, che a Roma non vi sia partita sulle vicende passate e sui programmi futuri, e si porta alla Presidenza della regione una mangiapreti come Emma Bonino?

L’importante è vincere e, parafrasando Borrelli, vincere, vincere, vincere. Conquistare posti di potere ed occuparli con qualunque mezzo e con qualunque colpo di fortuna sembra l’imperativo categorico che anima l’incolore e monocorde Pierluigi Bersani. Il lungo digiuno di potere patito, soprattutto in Lombardia, dal partito da lui diretto, ha fatto letteralmente perdere la testa ai soloni della sinistra, e ad una miriade di partiti, partitelli e movimenti, i cui dirigenti sperano, come Bobo Craxi, che la vicenda regali loro qualche briciola come una elezione che prima era soltanto un improbabile sogno.

I problemi della democrazia, e il vulnus ad essa inferto, (dimostrando quanto sia ‘alta’ la capacità di guardare oltre il contingente) passano in secondo ordine. Adesso è il momento d’incassare (se è possibile incassare), e tutti sono in fila chiedendo rispetto delle regole. In questo coro di possibili ‘miracolati’ c’è solo una voce diversa. Sembra assurdo, incredibile, sconvolgente ma è così soprattutto per Bersani e company che stavolta sono stati scavalcati a destra, o meglio, che stavolta hanno subìto una lezione politica inimmaginabile. C’è un signore, infatti, che vuole vincere sul campo, che rifiuta la vittoria a tavolino, tanto inseguita e pretesa dai suoi alleati, che chiede una soluzione politica all’intera vicenda. Incredibile, ma vero, si tratta di Antonio Di Pietro.

Non crediamo a improvvise conversioni democratiche sulla via di Damasco del trattorista di Montenero di Bisaccia. Se Di Pietro, infatti, sceglie la politica, e vuol trovare una soluzione al problema, vuol dire che non vuole che i suoi alleati vincano in alcune regioni. Li preferisce all’opposizione dove egli è un gran maestro e sa dirigere il ballo, o forse li conosce meglio di altri e li vuol tenere lontani dal potere visto come l’hanno gestito Antonio Bassolino e Agazio Loiero.

Ma la ‘conversione’ di Di Pietro, qualunque sia la motivazione, è una lezione a chi ciancia di democrazia, di Costituzione e si schiera contro la maggioranza di intere popolazioni.

Giovanni ALVARO
Reggio Calabria 4.3.2010

SE SULLE LISTE SI ABDICA LA PARTITA E’ NETTAMENTE PERSA

No, non mi convince per nulla che il terreno di gioco debba essere scelto dagli altri, come purtroppo sta avvenendo con la nuova ‘moda’ del ‘bianco che più bianco non si può’, che, tra l’altro, è un film già visto che gli immemori debbono sforzarsi di ricordare prima di cavalcare le nuove mode che, tra le righe, nascondono propositi forcaioli.

Ai tempi di ‘mani pulite’ avvenne che per non essere accusati di ostacolare il cammino della giustizia-pulizia la classe politica (soprattutto quella che era nel mirino dei ‘falsi rivoluzionari’) depose le armi, senza alcun onore, e pavidamente si fece dettare le scelte che il Parlamento rese legali come l’abolizione dell’immunità parlamentare. E anche prima dell’avvio del tentativo di presa del Palazzo d’inverno, la stessa classe politica, che doveva essere collocata sulla pira ad ardere, scrisse sotto dettatura ‘l’amnistia’ del finanziamento illecito ai partiti fino al 1989, e l’introduzione di forti e illimitati poteri ai PM.

Sono i tre passaggi fondamentali della strategia ‘golpista’ dei comunisti di allora. Con l’amnistia si metteva il PCI al riparo da possibili incidenti di percorso (finanziamento estero, condivisione del ‘finanziamento interno’, e sistema delle coop); con la modifica del ruolo e dei poteri dei PM si promuoveva la generazione dei sessantottini approdati in Magistratura per poterli usare adeguatamente per la ‘via italiana al potere’; con la rinuncia all’immunità ci si presentava nudi dinanzi ai plotoni di esecuzione per essere definitivamente spazzati via.

Ed è ciò che avvenne. Anche oggi con la vicenda ‘liste pulite’ si rischia di fare ciò che altri vogliono. Da una parte spostare i centri decisionali, nella formazione delle liste, dai partiti ai PM; dall’altra indebolire il caposaldo dei garantisti rappresentato dalla presunzione di innocenza dell’accusato, prevista , tra l’altro, dalla stessa Costituzione italiana; dall’altro ancora ridurre il consenso liquidando i candidati più forti. E’ abbastanza chiaro che sulle questioni di principio cedere una volta significa aprire una breccia dalla quale passeranno richieste sempre più oltraggiose e forcaiole.

Giustificare il cedimento con l’esigenza di non perdere qualche frazione di punto di consenso, e con l’esigenza di bloccare la possibile crescente polemica sulla questione, è solo un gravissimo errore. E’ una pia illusione pensare che togliere chi è stato condannato, in via definitiva, dalle liste (cosa normale e giusta e che già era prassi costante) sarà sufficiente, perché si chiederà di togliere anche quelli condannati in prima istanza, e poi di liberarsi anche di quelli semplicemente rinviati a giudizio, e indi di quelli più semplicemente indagati e con avviso di garanzia, e poi quelli che hanno un parente che ha salutato un inquisito di mafia, e infine, quelli iscritti ai partiti moderati che, soltanto per questo, saranno di sicuro possibili malfattori.

E’ chiaro, quindi, che l’obiettivo è ‘scarnificare’ i partiti considerati ‘nemici’. Ma immolarsi per far felici Di Pietro, Franceschini, Donadi, Bindi, Bersani e quant’altri è gesto semplicemente gratuito. Togliere dalle liste i condannati va bene, ma togliere anche gli indagati significherebbe delegare ai De Magistris di turno la composizione delle liste, ben sapendo che i PM alla De Magistris inquisiscono il mondo intero ma, alla fine, delle loro inchieste resterà soltanto il fumo, il pettegolezzo da bar sport e il crucifige mediatico del malcapitato, con la vita sconvolta e la carriera politica stroncata, dato che tutte, sottolineo tutte, le loro inchieste hanno fatto e faranno solamente flop.

E’ sopra le righe, quindi, invitare la classe dirigente moderata a maggiore cautela sull’argomento, senza farsi tirare dalla giacchetta dalle Angele Napoli disseminate per il nostro Paese? Berlusconi, da par suo, lo ha capito perfettamente, dovrebbero, però, capirlo tutti gli altri.

Giovanni ALVARO
Reggio Calabria 25.2.2010

PONTE: BASTA CON L’IPOCRISIA SPECULANDO SU TUTTO

E’ un ritornello che non cambia mai, ed è un ritornello che non produce alcun effetto anche se viene cantato da un trio d’eccezione (si fa per dire) qual è quello che si è appalesato dopo la frana che ha investito il paesino di Maierato nel Vibonese in Calabria. Un Presidente nazionale dei Verdi, un Segretario regionale dei Comunisti Italiani, e un autocandidato a Governatore della Calabria successivamente targato IDV, hanno cantato una strofa a testa che, con piccole varianti, sostanzialmente era questa: “Fermiamo il Ponte sullo Stretto ed usiamo quei fondi per finanziare un piano straordinario per la messa in sicurezza del territorio”.

I tre signor No si atteggiano a novelli ‘salvatori della patria’ con una buona dose di ipocrisia finalizzata, (nelle loro misere speranze), a ‘rubacchiare’ qualche voto nella ormai imminente consultazione regionale. E ciò incuranti del ridicolo a cui si espongono ma di cui non si preoccupano. ‘Rubacchiare’ voti, anche se tra di loro e con i loro alleati, è l’ultima frontiera del loro impegno politico. Ma l’atteggiamento strumentale, con i forti lai per la gravità della situazione idrogeologica del territorio, è chiaramente intriso di malafede.

I tre sanno, e se non lo sanno si dedichino ad altre attività, che i fondi del Ponte sono quelli deliberati dal Cipe (1,3 miliardi di euro), e quelli frutto dell’aumento di capitale da parte della Società ‘Stretto di Messina’ (che ai 300 milioni iniziali ne ha aggiunti altri 900 qualche settimana fa). La parte di intervento pubblico, quindi, ammonta a 2,5 miliardi ed è pari al 40% del costo dell’opera. Il restante 60% sarà reperito sul mercato internazionale col sistema del project financing.

Di detti fondi, gli utilizzabili per altro sono solo quelli stanziati dal Cipe, così come fece, a suo tempo, il Governo Prodi sensibile, per mantenere unita l’armata Brancaleone, alle sollecitazioni verdi, rosse e arcobaleno di cui si era fatto interprete l’allora Ministro delle Infrastrutture, Alessandro Bianchi. Di quello storno, che bloccò l’iter esecutivo dell’appalto del Ponte, facendo perdere ben due anni, non si è vista alcuna traccia, tanto che nessuno saprebbe dire a cosa son serviti quei fondi, se veramente son serviti.

Basta, quindi, con l’ipocrisia. Spostare 1 miliardo e 300 milioni non serve a nulla. Il piano che viene pomposamente richiesto per mettere in sicurezza l’intero territorio nazionale costerà decine e decine di miliardi di euro e, quindi, non è possibile affrontarlo in tempi ravvicinati. Così come non lo ha potuto affrontare il Governo della cosiddetta sinistra che alternativamente, in questi 15 anni, è stato alla guida (?) del Paese, mentre qualcuno del trio è stato ed è ancora Assessore regionale della martoriata terra di Calabria distinguendosi per le campagne sul No e per i suggerimenti a Loiero che già da solo era in condizione di mal governare e di non comprendere la valenza strategica del Ponte sullo Stretto per il Sud e per l’intero Paese.

Il Ponte sarà, infatti, l’occasione che il Mezzogiorno dovrà saper utilizzare pienamente, perché non si tratta di costruire solo la struttura che permetterà l’attraversamento stabile dello Stretto ma di agganciarla ad un tracciato ferroviario che sopporti l’Alta Velocità (oggi ferma a Salerno), che si colleghi ad una autostrada che sia finalmente praticabile, e che sia supportata da una rete di porti che, attorno a Gioia Tauro, soddisfino la domanda di trasporto dal corridoio 1 verso il Medio ed Estremo Oriente e viceversa. Solo i ciechi e chi è in malafede non capisce che tutto ciò comporterà massicci interventi anche di salvaguardia e di difesa del territorio.

Speculare sulle disgrazie delle nostre popolazioni è quanto di più aberrante possa essere fatto. Ma tant’è, questa è la classe dirigente che ha distrutto il Mezzogiorno e che è necessario spazzare via definitivamente.

Giovanni ALVARO
Reggio Calabria 18.2.2010

IL DI PIETRO ROBESPIERRE SULLA VIA DEL TRAMONTO?

Chi l’avrebbe mai pensato che anche l’ex poliziotto molisano potesse usare toni più pacati e meno giustizialisti nelle sue esternazioni? Eravamo così abituati all’assenza della politica nei ragionamenti dipietreschi, al posizionamento su off dell’interruttore del cervello, e all’uso smodato della pancia, che siamo rimasti basiti per la correzione che il trattorista di Montenero di Bisaccia ha dedicato alle affermazioni stupefacenti che il nuovo idolo dei manettari, Gioacchino Genchi, ha fatto al Congresso dell’IDV.

Superata però la fase dello stupore, e perché abituati a tentare di leggere e interpretare ciò che si muove dietro le quinte, ci si è sforzati di capire i motivi di questa incredibile giravolta e ciò che bolle nella pentola dell’Italia dei Veleni. La ‘correzione’, comunque, se è servita a disinnescare il caso che stava montando all’esterno del Partito, non è servita per nulla a far rientrare le differenze all’interno dell’IDV. Infatti la ‘correzione-reprimenda’ al Genchi non ha liquidato la fronda interna, se è vero come è vero, che gli stessi concetti sono stati ripetuti, il giorno dopo, a Porta a Porta, dall’altro idolo dei pancisti, Luigi De Magistris.

Nel caso della giravolta di Di Pietro si può pensare ad un esaurimento della ‘spinta propulsiva’ dipietresca, come avrebbe detto Berlinguer, che ha fatto venir meno il sostegno di quei poteri forti che hanno allevato, sostenuto ed appoggiato il leader dell’IDV. Non è il Giornale di Feltri, infatti, che stavolta dirige l’orchestra, ma il Corrierone che ‘sbatte il mostro in prima pagina’ con foto conviviale dove l’unico a non essere dei servizi è, ufficialmente, solo Di Pietro.

La cosa sorprende innanzitutto l’interessato che non sa darsi una spiegazione e, nel dubbio su chi e perché, preferisce un ombrello protettivo quale può essere l’esperienza del PD. Alleanza elettorale, quindi, col partito di Bersani, dopo mesi e mesi di scontri sanguinosi, e sullo stesso altare il Tonino nazionale è costretto a toni concilianti ed a bere, addirittura, la cicuta rappresentata del candidato a Governatore della Campania, Vincenzo De Luca, che fino a qualche giorno prima veniva attaccato come plurinquisito e non degno del sostegno dell’IDV.

Reprimenda e fronda sembrano svilupparsi per evitare la caduta del vecchio leader e ottenere l’ascesa dei nuovi protagonisti interpreti delle spinte più giacobine ed oltranziste esistenti nel paese e che di volta in volta si sono proiettati sul palcoscenico del Paese come girotondi, V-day, No-B day, e che hanno individuato nell’IDV il movimento più adeguato alle aspettative forcaiole. Non si tratta quindi di scelte tattiche riconducibili solo alle elezioni prossime, ma di scelte obbligate per la sopravvivenza da una parte, e dettate dalla necessità di chiudere l’esperienza dell’attuale leadership, dall’altra. La fronda odierna, che cresce giornalmente nel Partito, è una fronda pericolosissima, e può portare alla stessa decapitazione del nostrano Robespierre.

La differenza rispetto al passato sta nel fatto che le fronde di ieri si sviluppavano partendo da ‘insoddisfazioni’ personali, magari riferite ai rimborsi elettorali, e le rotture con relative espulsioni dal partito non avevano nulla di politico: i frondisti venivano facilmente additati come gli ‘attentatori’ della linea giustizialista del leader ed eliminati, come zavorra inutile. Le fronde odierne si sono espresse solo dopo aver conquistato i cuori dei ‘pancisti’ ai quali si sono presentati come reali interpreti delle pulsioni giustizialiste che animano il corpo del Partito, e vengono individuati dalla base come reale alternativa politico organizzativa che, a differenza dell’ultimo Di Pietro, mantengono alta la bandiera dell’odio con un linguaggio appropriato e abbastanza forbito.

Se le cose stanno così sembra veramente un percorso programmato (servizi?), per poter passare ad un’altra fase. A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca.

Giovanni ALVARO

Reggio Calabria 10.2.2010

NESSUN ONOR DELLE ARMI A WALTER VELTRONI

E’ condivisibile pienamente la prima parte dell’articolo di Vittorio Sgarbi sulle cause che hanno portato Walter Veltroni alle dimissioni, non più rinviabili, da Segretario Nazionale del PD . Sono condivisibili le argomentazioni, ivi inserite, che stanno alla base di un abbandono che non era più procrastinabile, ma che anzi era diventato addirittura un atto dovuto, per evitare di scivolare nel cosiddetto ‘accanimento terapeutico’.

Alle sottolineature sui colpevoli silenzi sulla vicenda di Del Turco, all’incomprensibile inerzia sulla vicenda dell’arresto del sindaco di Pescara, alla soggezione al populismo dipietresco, vanno aggiunte anche la perdita di ogni bussola dinanzi alla questione morale esplosa anche a sinistra, l’incredibile uso del maanchismo con il quale si dava un colpo al cerchio ed uno alla botte, l’allarmismo sugli inesistenti rischi per la Repubblica paventando una deriva antidemocratica, e un lessico fatto solo e soltanto di luoghi comuni. Ma non si può condividere la chiusa finale dell’articolo con la quale Sgarbi rende onore al caduto.

No, non è possibile offrirgli l’onore delle armi come si usa offrire ad ogni caduto. Non lo merita, Veltroni, simbolo di una classe dirigente incapace, inconcludente e, anche, pericolosa. Non lo merita veramente. Pur non essendo maramaldi, usi a infierir sui morti, non riusciamo a perdonargli le grandi responsabilità, non tanto verso il proprio partito (questo è problema che non ci interessa), quanto verso la democrazia del Paese: per l’odio che ha seminato avvelenando il clima politico e per le gemmazioni prodotte che, dopo ‘palombelle’, girotondi, Fo, D’Arcais, verdi, Grilli, sinistre radicali e, più recentemente, Pardi, Cammilleri e Levi di Montalcino, ha portato allo sviluppo incontrollato dell’IDV di ‘proprietà’ del signor Antonio Di Pietro.

No, nessun onore delle armi a chi, dopo 5 sconfitte consecutive (elezioni politiche, regionali Friuli, comunali di Roma, Abruzzo e, ora, anche Sardegna) non ha voluto prendere atto di una realtà semplice e lapalissiana, e, anche durante la propria orazione funebre, ha continuato a seminare bugie ed odio, e ad insultare il Presidente del Consiglio. Non lo ha sfiorato, e questo è sintomatico della pochezza del personaggio, e non solo di esso, che Silvio Berlusconi continua a vincere perché è in sintonia con il Paese, comprende il ‘sentire comune’ della gente, è un passo avanti rispetto al percorso politico degli altri, avversari (non nemici) o alleati stessi. I suoi tempi non sono mai state fughe in avanti, ma anticipazione di scenari.

E’ difficile pensare che l’attuale gruppo dirigente, sia quello che ha sostenuto Uòlter, che quello che brigava (come sempre ha fatto) contro, possa cambiare musica, anche perché la musica di questi anni è stata scritta da più mani. Le vittorie, si sa, hanno molti padri, mentre le sconfitte normalmente sono figlie di nessuno. Nel nostro caso, però, i padri dei rovesci subiti dal PD sono veramente molti. Non può tirarsi fuori nessuno. Sono quasi tutti padri dell’odio, della mistificazione, del giustizialismo, del doppiopesismo, della mancanza di respiro politico, dell’assenza di un vero programma politico, del tornaconto partitico sul cui altare hanno immolato tutti gli utili idioti, sia che si chiamassero socialisti, o che si chiamassero verdi, rifondaroli, comunisti critici, o comunisti nudi e crudi.

Anche la scelta di ‘imbarcare’ solo Di Pietro non può essere stata solo una scelta esclusiva del nostro Veltroni perché, se così veramente è stato, vuol dire che, pur di mandarlo deliberatamente al macello, gli hanno consentito l’innesco di una vera e propria mina con il risultato, non solo, di liquidare il signor Uòlter, ma di liquidare lo stesso partito. Lo stratega di questa operazione va paragonato a quel marito che per far dispetto alla moglie… Buon riposo, signor Veltroni, l’Africa l’aspetta. Avanti un altro.
Giovanni ALVARO

Reggio Calabria 20.2.2009

FEDERALISMO, CONTRORDINE COMPAGNI

FEDERALISMO, CONTRORDINE COMPAGNI

Dopo mesi e mesi di allarmismo irresponsabile per l’unità d’Italia, e la stessa ‘sopravvivenza’ del Mezzogiorno; dopo un vergognoso periodo di ‘dagli all’untore’ contro il PdL e la Lega colpevoli, il primo di aver assecondato gli obiettivi leghisti sul federalismo, e la seconda di perseguire l’inconfessabile distruzione dello Stato unitario nato dal Risorgimento italiano, è arrivato il famoso CONTRORDINE COMPAGNI che mette in difficoltà lo sbandato popolo di sinistra che adesso deve, nel migliore dei casi, ‘aggiornare’ il proprio armamentario propagandistico, ma nel peggiore, restare frastornato ed essere incapace di uscire dalla rete dove s’era messo, non sapendo più che pesci prendere.

Il contrordine è arrivato improvviso e inaspettato con la votazione al Senato che ha varato il primo SI’ al federalismo con 156 voti a favore, 6 contrari e ben 108 astensioni che guarda caso sono dei senatori del PD e, meraviglia delle meraviglie, anche dell’IDV di Di Pietro. Dov’è andato a finire il livore antilega e la difesa del Mezzogiorno? Volatilizzati immediatamente, scomparsi come il buco dell’ozono, perché l’incivile propaganda di chi, incurante del ridicolo, cavalcava qualsiasi problema pur di dare addosso al Cavaliere nero, ossia a Silvio Berlusconi, è come le bugie, avendo le gambe cortissime.

Si attendono, comunque, le necessarie risposte anche perché c’è chi giura che l’essersi astenuti non è che un tentativo disperato di agganciare la Lega per ripetere il ribaltone di tanti anni fa. Ma alla fine hanno solo dimostrato, PD e IDV, con quanta spregiudicatezza fanno ‘politica’ (sic!). Non si può, infatti, sull’altare del potere, da raggiungere ad ogni costo, sacrificare valori e ideali come quelli dell’unità d’Italia. Perché se erano convinti di quanto affermavano è semplicemente assurdo arrivare alla liquidazione determinando il ‘contrordine compagni’. Se così non fosse, è altrettanto grave, perché hanno solo dimostrato la falsità della loro propaganda e la strumentalità delle loro posizioni costruite per tentare un effimero consenso.

Dispiace la scelta dell’UDC che, votando contro, ha dimostrato cecità e corto respiro. Non si diventa rappresentanti del Mezzogiorno sventolando, ad ogni piè sospinto, la bandiera del sud, e utilizzando ogni occasione per distinguersi. Non basta la ricerca spasmodica di argomenti per ritagliarsi uno spazio, né basta pensare d’averlo trovato (e ne sono veramente convinti tanto da lanciare l’idea di un referendum!) per ottenerlo ed occuparlo. Sono solo illusioni, perché le scelte senza respiro politico si pagano, sia individualmente che collettivamente.

E si pagano anche perché il federalismo è di casa in Europa (dalla Svizzera, alla Germania) e col federalismo non è successo nulla di traumatico. L’UDC, che vuole apparire sempre prima della classe, sa che il federalismo (non la secessione) è stato un obiettivo di tutto il PdL teso a costruire strumenti nuovi, con il federalismo fiscale e solidale, per aumentare la corresponsabilità e battere, anche, le zone di evasione fiscale che sottraggono ingenti risorse alla collettività e non trovano soluzione, come l’esperienza insegna, senza un diretto e interessato controllo popolare.

Il Nuovo PSI, che non ha rappresentanti al Senato ma ne ha solo due alla Camera, non si tirerà indietro sulle scelte federaliste, ed eviterà la ricerca dell’esposizione mediatica, tra l’altro solo per qualche giorno, per riconfermare le proprie scelte di campo. Lo farà pienamente convinto del percorso che era dell’intero PdL e non solamente della Lega. All’esposizione preferirà, certamente, la politica.
Giovanni ALVARO

Reggio Calabria, 26.1.2009

IL FIDEISMO SU DI PIETRO FA VERAMENTE PAURA!

  • Il giustiziere della notte, Antonio Di Pietro , si sentirà sicuramente messo in un tritacarne così come si sentivano, anche per molto meno, i suoi inquisiti che in grandissima parte sono usciti indenni, giudizialmente, dal giogo inquisitorio a cui furono sottoposti. Alcuni non hanno retto alla gogna e, per scelta soggettiva o sviluppo oggettivo, hanno abbandonato questa terra. Doveva aspettarselo, però, il nostro piccolo fustigatore. E non perché è normale che l’inquisitore diventi inquisito, come la storia ci insegna, ma perché quando si costruisce un partito (?), l’IDV, basato solo sulla trasparenza e sull’onestà, sarebbe stato necessario che nell’armadio non ci fossero nè scheletri, nè addirittura qualcosa che gli potesse assomigliare.

    Le difficoltà dell’oggi nascono anche per questo. Se l’opinione pubblica non vuole che il mondo politico sia disonesto, a maggior ragione pretende, da personaggi come Di Pietro, che non ci sia su questo versante veramente nessuna ombra. Se la morale corrente critica i rapporti extraconiugali, la stessa morale li condanna, senza alcun appello, se il presunto protagonista boccaccesco fosse un prete. Sperare di risolvere, quindi, il problema negandolo, o minacciando querele, o parlando di ‘azione criminale’ di qualche giornale, non serve a niente. E’ invece necessario chiarire ogni piccolo particolare. Solo chi vuol tenere gli occhi chiusi si accontenta dell’ipse dixit, anche se purtroppo, tra i suoi seguaci, c’è chi ha deciso di tenerli saldamente chiusi. Non tutti però.

    Alcuni sono rimasti sconcertati, delusi e amareggiati per l’evidente contrasto tra il predicare e il razzolare, ed hanno preso decisamente le distanze dall’incantatore targato IDV. Gli perdonavano tutto, proprio tutto, dall’assenza di respiro politico agli strafalcioni grammaticali, ma non l’ipotetica sporcizia sulla bandiera della moralità. Altri invece, sentendo scricchiolare le certezze che avevano, avrebbero deciso di vedere fino in fondo l’attuale ‘partita’, sperando d’essere aiutati a uscire dal guado in cui si sono venuti a trovare anche per evitare di dover confessare a se stessi quanto siano stati ingenui e incauti nella scelta del cavallo su cui avevano puntato le loro speranze. E, infine, c’è chi ha considerato, e considera tuttora quanto sta avvenendo, solo frutto di quel demonio di Berlusconi che una ne fa e cento ne pensa, e si rifiuta addirittura di leggere quanto scrivono molti giornali, non più solo il Giornale della famiglia demoniaca, ma anche altri come ad esempio lo stesso Corriere della Sera.

    Questa terza categoria fa veramente paura. A differenza dell’articolo dell’avvocato Li Gotti che ha solo il sapore dell’aggressione nei confronti del Direttore de il Giornale, e quello della ‘captatio benevolentiae’ nei confronti di chi decide vita o morte politica dei propri parlamentari, è il fideismo esasperato che fa tremare i polsi e le vene d’ogni sincero democratico. Perché il fideismo porta a rifiutare l’approfondimento della vicenda, porta ad ignorare quanto dicono gli ‘altri’, si pasce della verità sola e unica del suo predicatore, accoglie a occhi chiusi il ‘verbo’ del capo perché non può essercene un altro al di fuori di quello, spinge a inveire, offendere, attaccare e minacciare. I blog di Di Pietro e dell’IDV sono letteralmente infarciti di ogni contumelia.

    Non c’è dubbio che si tratti di un pezzo di ‘popolo’ assolutamente minoritario, che ragiona con la pancia, e che considera la campagna mediatica una terribile invenzione dei nemici del proprio idolo. Esso, l’idolo, era, è e sarà sempre immacolato. Ma anche un pezzo minoritario, incolto, retrogrado e qualunquista, può diventare un pericolo se trova, come ha trovato, un proprio discreto organizzatore le cui iniziative spingono verso derive populiste e verso sbocchi impensabili.

    Quanta responsabilità, signor Veltroni, si è assunto nella cronaca odierna che ogni democratico si augura non diventi mai storia!

    Giovanni ALVARO

    Reggio Calabria, 13.1.2009

  • DI PIETRO S’E’ BLINDATO CONTRO I ‘GUASTAFESTE’

    Prima o poi, com’era prevedibile, doveva accadere. Come sempre, (vedi Robespierre), anche i più feroci inquisitori subiscono la stessa sorte che hanno imposto agli altri. E non certo solo per fatti ‘penalmente rilevanti’, perché in politica si paga dazio anche per fatti che cozzano terribilmente con il senso comune della gente semplice, con la prassi morale imperante, e con la stridente collisione con le bandiere sventolate ad ogni piè sospinto.

    E’ bastata una serie di telefonate del pargolo dipietrino per aprire un processo di messa a fuoco di notizie che, nei mesi e nelle settimane passate, venivano soltanto sussurrate o soltanto timidamente pubblicate, ma sempre ignorate dalla grande stampa italiana, e spesso oggetto di querele da parte dell’interessato che non accettava alcuna critica e respingeva ogni possibile addebito. Stia tranquillo l’ingenuo Cristiano, che magari si sente in colpa col paparino, la ‘cosa’ era destinata ad emergere. Era solo questione di tempo, e la pentola in ebollizione sarebbe esplosa con grande fragore, lui, semmai, è stato solo l’inconsapevole detonatore.

    Della vicenda comunque non ci interessano i lati ‘penalmente rilevanti’ (questo è essenzialmente compito della magistratura), a noi interessano i lati politici e le incongruenze denunciate, sui media nazionali, nel comportamento del ‘leader’ del qualunquismo populista qual è Antonio Di Pietro. Due sono i problemi che attendono risposte adeguate e sui quali vogliamo soffermarci, a parte i motivi, mai chiariti, della spettacolare dismissione della toga quand’era al culmine della popolarità che, la parte più viscerale del popolo italiano (quello per intenderci che non usa cervello o cuore, ma solo pancia), non nega a nessuno.

    Il primo problema è capire come Di Pietro sia venuto a conoscenza di un’inchiesta, (coperta dal segreto istruttorio), che coinvolgeva sia il Provveditore alle opere pubbliche di Campania e Molise dott. Mautone (poi arrestato, liberato per vizi di forma e riarrestato), sia lo stesso figliuolo Cristiano. Il primo trasferito d’urgenza al Ministero, il secondo, come d’incanto, ha interrotto le telefonare al Mautone. Di Pietro prima risponde che lo ha saputo ‘dalle agenzie’, ma detta giustificazione è risultata falsa, perché le notizie in merito, a luglio 2007, non esistevano (segreto istruttorio); successivamente parla di aver ‘annusato’ l’aria convinto di chiudere così la vicenda, magari pensando che gli italiani (non quelli di pancia, ma quelli di testa) siano dei perfetti imbecilli a cui si può raccontare la favola dell’asino che vola.

    Il secondo problema nasce dai rimborsi elettorali (40 milioni di euro pari a circa 80 miliardi di vecchie lire) che, si è saputo, non andavano al Partito dell’IDV, ma all’Associazione IDV i cui unici membri sono solo Antonio Di Pietro (presidente), la moglie Susanna Mazzoleni e l’amica di famiglia Silvana Mura (tesoriere) promossa deputato. L’incredibile sta nel fatto che nel Partito (che non conta nulla) ci si può iscrivere quando e come si vuole, mentre nell’Associazione si può entrare, con atto notarile, solo se vuole Di Pietro, e in questi anni chiaramente non ha voluto alcuna ‘contaminazione’. L’Associazione è quella che controlla il finanziamento elettorale. Egli giustifica questa blindatura antidemocratica con una frase illuminante: “Noi (chi? Lui, la moglie e l’amica?) ci siamo garantiti così, e ci sentiamo tranquilli dalle rivendicazioni di qualche guastafeste”. Cioè, in parole povere, nessuno può mettermi in minoranza e la cassa del partito la controllo comunque io, in barba agli oppositori interni al partito chiamati semplicemente guastafeste.

    Sorge da ciò un problema delicatissimo, e una domanda specifica: può esserci in un Paese democratico, come l’Italia, un partito gestito in modo così antidemocratico? Se la risposta è no, vanno assunte iniziative per far si che i partiti, tutti i partiti, abbiamo realmente una vita democratica. E’ un altro dei problemi da affrontare per far crescere la democrazia dell’intero Paese.

    Giovanni ALVARO
    Reggio Calabria, 5.1.2009

  • GRAZIE A CRISTIANO DI PIETRO, FORSE…

    Clemente Mastella, in modo accorato, ha dichiarato che non avrebbe osato pensare a cosa sarebbe successo se una telefonata come quella del ‘pezz’e core’ Cristiano Di Pietro fosse stata registrata sulla propria utenza telefonica. “Per molto meno -ha continuato- mia moglie Sandra è stata arrestata, ed io ho dovuto lasciare il Ministero di Grazia e Giustizia, il partito, la carriera politica”. Con questa battuta il caro Clemente ha sintetizzato il doppiopesismo giudiziario esistente in Italia che, proprio per l’affermazione che lo ha basìto, sembra essergli nuovo e inedito.

    No, caro ex Ministro di Grazia e Giustizia, non c’è nulla di nuovo oggi nell’aria, anzi è tutto antico. Solo chi non ha voluto vederlo, non s’è accorto che venivano usati, e non solo dai media, due pesi e due misure, a seconda dell’appartenenza politica dei soggetti interessati. Solo chi, spinto a ingraziarsi l’ordine considerato ‘invincibile’, e anche per questo impegnato a neutralizzare quanto realizzato dal precedente Ministro on. Castelli, poteva far finta di non scorgere la realtà che scivolava sempre più verso una deriva incontrollabile, e dimostrarsi così un marziano scandalizzato.

    C’è una frase però dell’ex Ministro che merita un’approfondimento, ed è quella con la quale Mastella ha affermto: “A Di Pietro pare che tutto sia concesso. Sembra che molti ne abbiano paura”. E’ una frase che rispecchia fedelmente il pensiero che hanno molti, anche all’interno dello stesso Partito di Veltroni, che continuano a non spiegarsi, prima l’alleanza con Di Pietro a scapito di comunisti, socialisti e verdi, e poi il continuo inseguire le sue iniziative populiste; l’appiattimento sul suo credo giustizialista; e l’accettazione dei suoi candidati imposti a suon di provocatorie affermazioni pubbliche. Non si dimentichi che in Abruzzo il candidato a Governatore era un uomo di Di Pietro che il PD ha dovuto, obtorto collo, ingoiare col risultato super deludente registrato a spoglio concluso.

    Ma, se veramente Uòlter e il più ristretto gruppo dirigente dei PD, hanno paura del nostrano mini Robespierre, c’è qualcosa che non è ancora emerso e che è necessario far emergere. Forse, per questo, bisognerebbe tornare indietro con la memoria e capire la vicenda della valigetta, piena di soldi di Gardini, seguita da Di Pietro fin sul portone di Botteghe Oscure e quindi letteralmente scomparsa: perché oltre quel portone non si è trovato chi NON POTEVA NON SAPERE. Ma anche in questo caso la verità sarebbe solo parziale, perché se fino ad ieri poteva avere un significato la difesa della propria impunità oltre quella della propria diversità morale, oggi, dopo che Donegaglia (ex grosso dirigente delle Coop rosse) ha deciso di aprire il rubinetto dei propri racconti svelando i meccanismi della corruzione rossa, non lo si capisce più.

    O forse tutto va ricondotto al fatto che Violante non è più visibilmente accreditato come referente unico del fronte giudiziario, ed al suo posto si è insediato il nostro piccolissimo nuovo Torquemada che però pensa solo a rafforzare il proprio ruolo nel Paese disinteressandosi d’altro. Ma anche se non lo facesse, l’esperienza dimostra, ch’è difficile tenere sotto controllo un ordine diventato ormai oggettivamente incontrollabile.

    I prossimi giorni forse sveleranno tanti misteri, per adesso bisogna accontentarsi del fatto che il dibattito sulla giustizia non è più recintato nelle riserve indiane ma si è librato in ogni direzione. E questo fa ben sperare sullo sgretolamento del fronte della conservazione nella difesa di ruoli e privilegi di casta.

    Intanto dobbiamo un grazie di cuore al dipietrino, delfino o trota che sia, perché ha contribuito, e non poco, a questo risultato. Quelle telefonate fatte al dott. Mautone hanno aperto, al grande pubblico, uno spiraglio illuminante sulla differenza tra predicare e razzolare, e sulla differenza tra democrazia praticata e predicata. In quella praticata il controllo spetta al popolo, nel secondo caso spetta solo a chi ha la furbizia di costruirsi strutture con proconsoli parentali, o partiti con speciali statuti.

    Ma la storia del giustiziere della notte, Antonio Di Pietro, è intessuta di altre vicende ed altri misteri. No, non parliamo né della Mercedes ricevuta, né del prestito di 100 milioni a tasso zero, né dell’appartamento avuto in affitto dalla Cariplo a Milano e ceduto al proprio figliolo, né degli immobili comprati dalla An.to.cri. (Anna, Totò, Cristiano, il trittico Di Pietro) e affittati all’IDV in varie zone d’Italia, ma parliamo del più importante dei misteri. Quello delle sue dimissioni dalla Magistratura, i cui motivi rimangono ancora ignoti, e chissà se in essi non ci sia la chiave per leggere la sudditanza di Veltroni e del PD all’egemonia dipietresca.

    Nei giorni scorsi, il picconatore per eccellenza, l’emerito Presidente della Repubblica Francesco Cossiga , solitamente ben informato (forse per i suoi trascorsi gomito a gomito con i servizi segreti di questo Paese), lo spronava a confessare il perché di quell’abbandono, ricordandogli che lui (Cossiga) ne era a conoscenza, ma che, oggi, preferiva evitare di renderlo pubblico. E’ augurabile che non ci faccia aspettare molto.

    Giovanni ALVARO

    Reggio Calabria 30.12.2008

    SGOMBRARE IL CAMPO PER MANIFESTA INCAPACITA’

    Lo avevamo già scritto, facendo i facili profeti, che alla fine Veltroni, D’Alema e & avrebbero fatto come gli struzzi. Imbrogliano se stessi, si nascondono la verità, quella nuda e cruda della Caporetto abruzzese (anteprima di una Caporetto generale), e, come se si stesse in una normale situazione, anziché porre mano ai problemi di linea politica e correzione profonda del loro modo d’essere, decidono di mantenere lo status quo con quell’asfissiante alleanza con Di Pietro, e, con l’occhio al controllo del partito, pensano solo a come affrontare il redde rationem che comunque è stato rinviato al dopo elezioni europee.

    Siamo veramente, come si vede, all’incapacità di percepire la gravità della situazione in cui si trovano. In pratica, si è alla confusione più totale ed al possibile sfascio di quel partito che fu il PCI, il PDS, i DS e, con la Margherita, l’attuale PD, ‘amalgama mal riuscito’ (versione D’Alema), o ‘amalgama che c’è già stato alle elezioni politiche e prima ancora alle primarie’ (controreplica Veltroni).

    Non c’è dubbio che, nella scelta di non toccare nulla delle proprie alleanze, ha pesato l’esplosione della questione morale che sta facendo assaporare, anche ai ‘moralmente diversi’, quanto è terribilmente salato il mare. Come in una gara tra le Procure, infatti, si susseguono, senza soluzione di continuità, le inchieste, gli arresti, le iscrizioni nei registri degli indagati e i rinvii a giudizio, che stanno sconvolgendo il cosiddetto popolo di sinistra che, per la prima volta, forse, comincia ad aprire gli occhi sul pianeta magistrati e, a denti stretti, comincia a considerare urgente la riforma del settore. Riforma che, per anni, è stata vista come il tentativo di mettere sotto controllo l’ordine giudiziario, e non come una necessità per rendere civile e moderno un Paese sotto scacco e martoriato da abusi di ogni genere per l’autoesaltazione e la forte esposizione mediatica dei nuovi protagonisti, entrati nell’agone a gamba tesissima, quali sono stati i magistrati politicizzati.

    La preoccupazione del ristretto gruppo dirigente del PD è comunque e sempre Antonio Di Pietro e la sua capacità di sfruttare ogni loro passo falso sul terreno giustizialista. Uòlter e ‘baffino’ sanno che le iniziative del PdL non puntano a fare dell’attuale ‘tangentopoli rossa’ un vessillo da usare senza parsimonia. Forse finalmente riescono a capire che Silvio Berlusconi e i suoi alleati non usano, contro i loro avversari, i metodi della canea giustizialista come sanno fare loro e i ‘campioni del rispetto, della civiltà e del confronto’ dell’IDV e del suo leader. Certamente è stato difficile per loro, cultori dell’aggressione sistematica, capire una verità lapalissiana: solo chi non ha argomenti si rifugia nel ghetto giustizialista, mentre il PdL ne ha a iosa.

    Per esempio a Napoli e in Campania, a che servirebbe girare ferocemente il coltello nella piaga, facendo scadere l’iniziativa politica e mettendo sterco nel ventilatore? A chi gioverebbe seminare discredito sulle istituzioni? La giustizia faccia il suo corso e velocemente, ma a Napoli e in Campania, usando solo il lessico del signor Gambale (il Torquemada partenopeo famoso per gli attacchi contro Gava, Scotti, De Lorenzo e Di Donato chiamati la ‘banda dei quattro’), bisogna liquidare al più presto ‘il duo Bassolino-Iervolino’ per assoluta manifesta incapacità politica.

    Le immagini di una regione sommersa dalla spazzatura, senza citare altro, sono stati il biglietto da visita di un gruppo dirigente modesto e senza capacità di volare alto. Mostrare le mani, come ha fatto la Iervolino, e dire che sono pulite serve a ben poco. Perché per guidare una città come Napoli, ex Capitale del Regno delle Due Sicilie, servono certo mani pulite, ma anche mani operose e occhi attenti e vigili. Essendo mancate queste due condizioni, sarebbe più corretto e politicamente più salutare chiudere finalmente un’esperienza fallimentare.

    Giovanni ALVARO

    Reggio Calabria 22.12.2008

    VELTRONI, BASTA CON UN CONNUBIO INDECENTE

    Si potrà girare e rigirare attorno al problema quanto si vuole, si potranno dare mille interpretazioni alla ultima sconfitta elettorale, si potrà dire da parte di Veltroni che alla fin fine il bicchiere si presenta mezzo pieno, mentre D’Alema gli dirà sicuramente ch’esso è mezzo vuoto, se non addirittura che sia totalmente vuoto, ma alla fine faranno come gli struzzi: nasconderanno la verità nuda e cruda della Caporetto rappresentata dal risultato elettorale dell’Abruzzo.

    Non sono abituati a dire come stanno veramente le cose, ad assumersi pienamente la responsabilità di ciò che va male, ad ammettere d’avere sbagliato tutto da dieci mesi a questa parte, per cui continueranno a mentire a se stessi, e saranno vittime della loro stessa presunzione. Non che una strada diversa li potrà riportare in auge, ma almeno li salverà dal precipizio, ed eviterà all’Italia la crescita di logiche populiste e sudamericane degnamente rappresentate da quel simpatico ‘superdemocratico’ qual è il signor Antonio Di Pietro.

    Affrontare la realtà significa prendere il toro per le corna, direttamente e senza alcun infingimento, stoppando la ripida scivolata su quel piano inclinato, cosparso di grasso, dove sono riusciti a collocarsi i signori della cosiddetta sinistra obamiana che vivono di nominalismi, simboli e frasi inglesi che tanto fanno chic nelle terrazze romane. Prendere il toro dal suo simbolo può appariscente significa però riconoscere il gravissimo errore commesso nell’aver allevato e messo in circolo un nemico della democrazia, un giustizialista dichiarato, un populista senza alcun respiro politico, quando contemporaneamente si decretava la fine di sinistre antagoniste, sinistre critiche, socialisti servizievoli e verdi di ogni gradazione.

    Non che l’assenza di detti rappresentanti (Diliberto, Boselli, Pecoraro Scanio, Giordano, Mussi, ecc.) ci abbia sconvolto e ci abbia costretto a mettere il lutto, ma onestamente li avremmo preferiti al trattorista di Montenero di Bisaccia che non è un avversario politico, ma un arringa popolo proteso solo ad incrementare la propria dote elettorale, portandola oltre il 4%, per non dipendere da decisioni altrui. Infatti se l’IDV ha inseguito l’alleanza con Veltroni lo ha fatto per rendersi immune dalla filosofia del voto utile, operazione che non gli serve più volendo giocare direttamente e da solo per evitare, così, si vedersi sbattere, nel prossimo futuro, la porta dell’alleanza in faccia. Sa che per lui è finita la stagione degli incarichi di Governo, ed allora punta a mantenersi in vita e con essa a mantenersi i cospicui rimborsi elettorali.

    Rozzo quanto si vuole, ma abbastanza lucido nel suo percorso e nelle sue scelte. Di Pietro sa che la propria crescita non può avvenire a danno dei moderati raggruppati sotto i vessilli del PdL guidato dal nemico Silvio Berlusconi, ma solo a scapito dei propri compagni di merende, ed allora non si fa scrupoli dando addosso al PD ma se necessario anche alla Croce rossa. Girotondi, grilli, tensioni sociali, scuola, scioperi epifanei lo vedono sempre in prima linea e sempre col megafono in mano. A Uòlter un consiglio: non continuare a sottovalutarlo. Tu sarai più fine certamente, ma ti è mancata completamente la lucidità. Hai imbarcato un talebano, lo hai coccolato, fatto crescere, ed ora ti si rivolta contro. Per te non c’è futuro se non hai il coraggio di staccarti totalmente da tale personaggio.

    A noi che importa? Di te veramente nulla, e nulla di ‘baffino’ il tuo gemello. A noi interessa l’Italia e le politiche da assumere in questo grave momento di recessione internazionale. Convergenze sulle scelte di fondo sono più necessarie dei muri contro muri. Per questo, e solo per il nostro Paese, ci permettiamo di consigliarti la rottura di un connubio indecente.

    Giovanni ALVARO
    Reggio Calabria 16.12.2008

    LE BUFALE DI VELTRONI SUL PALCOSCENICO ITALIA

    C’è chi ha gioito per le dichiarazioni del Walter-Don Chisciotte sulla fine dell’alleanza con Antonio Di Pietro, vuoi perché sembrava avviarsi la chiusura di una stagione vergognosa fatta di corse e rincorse, e di sceneggiate a chi la sparava più grossa, con rilanci sempre più azzardati, vuoi anche perché c’era chi sperava in una possibile riapertura dei giochi, che sembravano definitivamente chiusi, dopo le elezioni politiche, e che la rottura con l’IDV sembrava poterli riaprire.

    E’ bastato poco per capire che si trattava di una nuova bufala. Di Pietro, infatti, per nulla intimorito dal proclama di rottura rintuzzava con sarcasmo le dichiarazioni veltroniane e proclamava che senza il suo apporto il PD non avrebbe vinto neanche una bambolina. A nulla è servito dire che neanche l’IDV poteva sperare di vincere, anche perché a Di Pietro non interessa vincere ma interessa consolidare il suo 4% che è la sua vera ed unica àncora di salvezza. Dopo, comunque, le schermaglie iniziali ha provveduto lo stesso Veltroni a smorzare gli entusiasmi e a bloccare i brindisi già avviati dai vari Nencini, Giordano, Diliberto, Ferrero e Pecoraro Scanio che continueranno ad essere personaggi in cerca d’autore.

    Da una parte Veltroni ha ricordato ch’egli non ha detto nulla di nuovo sul suo rapporto con Di Pietro, dall’altra, onde evitare ulteriori equivoci, ha ribadito la scelta del PD di sostenere a Presidente della Commissione Vigilanza Rai quell’Orlando Cascio dell’IDV a cui però, per i suoi trascorsi, il PdL non può né intende affidagli un ruolo di super partes. Poteva bastare questo per respingere l’accusa di ‘vigliacci’ che gli è stata rivolta da Di Pietro ma ha voluto rincarare la dose, con la sua collaudata faccia di bronzo, tentando un ritorno positivo dalla vicenda. Ha quindi invitato Berlusconi e la maggioranza a fare come hanno fatto loro: “noi vi abbiamo votato il candidato alla Corte Costituzionale, ora voi dovete votarci il nostro candidato alla Vigilanza ch’è Cascio Orlando Leoluca da Palermo”.
    Ma che, fa lo gnorri? Pensa che gli altri siano degli imbecilli? Dimentica cosa è avvenuto? Bisogna ricordargli allora che il candidato alla Consulta era il prof. Gaetano Pecorella e che solo il senso di responsabilità dello stesso e dell’intero PdL ha determinato il ritiro della proposta e, conseguentemente, l’elezione dell’avv.to Giuseppe Frigo. Dimostri Orlando e lo stesso PD eguale senso di responsabilità avanzando una seconda proposta e stiano certi che la vicenda si sbloccherà immediatamente. Ma Veltroni non ha il coraggio di farlo malgrado la presunta rottura dell’alleanza (sic.!). Di Pietro lo fulminerebbe letteralmente e, chissà perché, egli ne è terrorizzato.

    Ce n’è abbastanza per permettere al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, la individuazione delle responsabilità del mancato scioglimento del cosiddetto ‘nodo dell’asino’ , quel nodo che più lo tiri più si serra. Abbastanza a ché lo stesso Marco Pannella, che ha forzato la mano, con i suoi scioperi, riconosca di chi è la colpa dell’inconcepibile muro di tracotanza eretto dal duo Valter-Tonino. Abbastanza anche per l’Italia ch’era così frastornata e non capiva bene il perché del braccio di ferro, ma a cui, ora, tutto è chiaro.

    Parliamo di quella ‘Italia migliore della destra che la governa’ ma anche, e non ci voleva molto, aggiungiamo noi, “migliore della sinistra a cui ha rifiutato il sostegno inviandola all’opposizione”. E’ proprio questa sua condizione che la eleva a garante della sua stessa democrazia, e ne fa un corpo impenetrabile alle sceneggiate, alle falsità ed alle bufale messe in campo da vecchi e nuovi arnesi della politica italiana. Ne tengano conto Veltroni e Di Pietro.
    Giovanni ALVARO

    Reggio Calabria 26.10.2008